Becoming hospitaleros
Un ostello, un hospitalero. Ogni cammino di pellegrinaggio sarebbe ben più faticoso (e costoso) se non ci fossero, dislocati a opportune distanze l’uno dall’altro, degli ostelli “OP”: ospitalità povera. Luoghi semplici, essenziali, in cui a fine giornata il pellegrino stanco trova ciò di cui ha più bisogno in quel momento: una doccia calda, cibo, un letto per la notte. E un sorriso accogliente, qualcuno con cui scambiare le proprie storie, con cui cantare, ridere, o semplicemente sedere in silenzio, sapendo di poter deporre le proprie fatiche.
L’hospitalero* é questo: una persona che prova gioia nell’accogliere ogni pellegrino e nell’assicurargli un luogo pulito, fornito e accogliente per rigenerarsi. E che il giorno dopo si dispone ad incontrare nuovi e diversi volti, nuove e diverse vite, pronto a dare la stessa eppur diversa accoglienza.
Mestieri simili. Fare l’esperienza di essere hospitaleri e sentirla congruente con il mestiere di counselor è stato tutt’uno. L’hospitalero accompagna e supporta il cammino del pellegrino proprio come il counselor il percorso del proprio cliente:
- accoglie un essere umano affaticato, che ha molto camminato portando un peso sulle spalle, che siano 9 kg di zaino oppure le responsabilità del proprio ruolo o della propria complessità di vita;
- offre cibo, per l’anima e per la mente: porta domande stimolanti, prospettive nuove, che possono nutrire un nuovo modo di pensare, creare bivi dove prima c’erano sensi unici;
- fornisce un luogo per la cura di sé, che sia un letto in cui riposare o uno spazio dove deporre le proprie fatiche, parlare di sé, essere ascoltato, rigenerarsi. E da qui, l’indomani, riprendere il cammino con rinnovate energie.
E tutto questo, in uno spirito di calore e accoglienza incondizionata, in cui non esistono modelli cui aderire, ideali cui tendere, ma una individualità da rispettare e, tutt’al più, da rigenerare e far fiorire.
Uno scambio alla pari. Sembra che fra hospitalero e pellegrino, fra counselor e cliente, il rapporto sia a una via, uno dà, l’altro riceve. Non è così. Provvedere, aiutare non sono la stessa cosa che servire. Quando cerco di provvedere, vedo nell’altro qualcosa che non va. Quando aiuto, la vita mi appare debole. Entrambi implicano una disuguaglianza, un rapporto non alla pari. Creano un debito.
Servire, al contrario, è paritetico, è reciproco. Per servire mettiamo la nostra interezza – le nostre ferite, i nostri limiti, persino i nostri lati oscuri – a disposizione della vita e dell’altro. E ne siamo ricambiati. Quando serviamo, la vita ci appare completa e siamo consapevoli di fare da canale a qualcosa di più grande di noi. Perciò, quando aiuto provo soddisfazione, quando servo provo gratitudine.
(liberamente tratto da “Saper accompagnare”, di Frank Ostaseski)